Takashi Kuribayashi svela il segreto e nasconde l’ovvio
Su Instagram seguo gli hashtag relativi agli artisti che mi piacciono e di cui vorrei vedere di più. Spero che qualcuno più vicino di me alle gallerie che li espongono scatti una foto e che in qualche modo mi permetta di vedere opere che altrimenti mi sarebbero sconosciute. All’hashtag dell’artista Takashi Kuribayashi ultimamente però sembra corrispondere solo Trees. Opera bellissima, ma solo una, appunto, di un catalogo d’artista ben più vasto. Eccone allora altre che mi hanno fatto innamorare, anche se non su Instagram.
Takashi Kuribayashi è un artista preoccupato per la sua terra, incuriosito dalle differenze, e diffidente delle convenzioni. Nelle sue spesso mastodontiche installazioni indaga la paura atavica dell’invisibile e del troppo evidente. La tentazione irresistibile della conoscenza e il bisogno che a volte sentiamo di voltarci dall’altra parte.
Secondo Paul Klee“l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.” Kuribayashi sembra aver preso questa massima alla lettera. I suoi tunnel di specchi non riflettono solo la realtà, ma la amplificano e esagerano, trasportando il visitatore in un nuovo universo. L’”albero di Ibuki” è un gigantesco tronco d’albero appoggiato al suolo, attraverso cui il visitatore è chiamato a guardare, quasi fosse un telescopio. Gli specchi che rivestono l’interno ripresentano il cielo in modo inedito. Rendono visibile qualcosa che non lo era, almeno non in quel modo. Kuribayashi si è ispirato a una pratica diffusa in varie parti del mondo e particolarmente sentita a Ibukijima, l’isola natale di sua madre. Per un mese prima e uno dopo il parto, le donne erano isolate perché considerate impure e un pericolo per la comunità. Il canale fatto di cielo dell’albero di Kuribayashi sembra voler rievocare il momento in cui i neonati vedevano la luce per la prima volta su quest’isola ascetica. La rivelazione di un mondo nuovo al neonato, in contrasto con l’occultazione vergognosa della madre.
Dopo l’esplosione del reattore della centrale di Fukushima, i giapponesi hanno dovuto confrontarsi con la paura della radioattività: qualcosa che l’occhio non percepisce, ma da cui bisogna ben guardarsi. Kuribayashi ha compreso che il reattore nucleare è come una divinità, un mostro di saggezza sovraumana, ma anche temibile prodotto artificiale. Nella sua opera “CAN NOT SEE DO NOT SEE DO NOT WANT TO SEE PRAY” Una scultura di metallo è un buddha seduto, ma anche la stilizzazione del fungo atomico di Hiroshima. Intorno alla sua temibile figura sono appese vetrate come quelle delle chiese gotiche. Su di esse si alternano simboli di salvezza e speranza, religione e centrali energetiche. In Giappone i reattori hanno i nomi delle divinità bodhisattva: si chiamano Fugen, Monju. I sarcofagi di cemento che li custodiscono, celano e proteggono dalla distruzione delle radiazioni. Così nascosto, l’invisibile è ancora più potente, la sua influenza sembra amplificata dal segreto. In Giappone esistono diversi hibutsu: queste raffigurazioni del Buddha sono nascoste alla vista in appositi altarini chiusi, anche a chi si occupa della loro conservazione. La preghiera presuppone mistero. Succede che vengano esposte in occasioni particolari, anche una volta ogni 500 anni. Proprio come un reattore che attenda di tornare innocuo. Gli eoni sono l’unità di misura comune al ciclo di reincarnazione e a quello del decadimento nucleare. Una vita umana non permette di esserne testimone.
A letter from Einstein è un’altra riflessione sull’energia atomica. Un lampadario di vetro formato da lettere apparentemente sconnesse rivela il suo messaggio nell’ombra che proietta intorno a sé. Si tratta della lettera che Einstein ha scritto al presidente Roosevelt per autorizzare lo sviluppo dell’atomica. Quasi a schermare la luce che il lampadario emette, più che a fare da fondale per la proiezione, l’artista l’ha circondato di sacchetti di contenimento. Questi contenitori sono stati usati nelle zone colpite dalle radiazioni di Fukushima. Il terreno contaminato è stato raccolto e chiuso nei sacchetti appositi. La loro decomposizione richiede tre anni. Il decadimento del loro contenuto ne richiede 30. Il disvelamento preteso da Kuribayashi questa volta è quello che le autorità dovrebbero compiere. Quest’opera è una denuncia della mancanza di trasparenza sulla reale entità della contaminazione e la pericolosità delle conseguenze del disastro del 2011. Una categoria particolarmente pericolosa dell’invisibile.
Invisibili e imprescindibili sono i confini sulle cartine, le mappe, che tagliano case, strade, vite. Le separano senza prima chiedere. Wolkenmeer (mare di nuvole) è un paesaggio montano in miniatura, creato con la terra di Towada mista ad acqua. Vediamo queste vette aspre e incontaminate, omogenee, quasi perfettamente nere. A un certo punto, però, tutto cambia. Come in un dipinto a inchiostro di Hasegawa Tōhaku 長谷川等伯(1539 -1610) si alza una bruma. Dapprima leggera, pian piano acquista densità. Si infiltra nelle aree basse dei rilievi e col suo candore rende manifesta la forma che le vette, ora isolate, rievocano: una mappa del mondo. I confini ci sono familiari e acquistano un altro senso. Ancora una volta Kuribayashi ci sfida a riconsiderare l’invisibile sempre presente nelle nostre vite. E cosa significhi, in effetti, “vedere”.
Immagini dal sito dell’artista https://www.takashikuribayashi.com/works